Una nocca sbucciata, un avambraccio escoriato, un pollice schiacciato col martello e lo spigolo di una portiera conficcato nel polpaccio.
E’ questo il bilancio definitivo della visita di mio padre questo fine settimana, ma andiamo con ordine.
“Quando viene il nonno? Eh? Quando viene? Eh? Perché non viene? Glielo dici che deve venire?”, e io che non volevo neanche chiederglielo, perché sono offesa a morte che venga giusto due volte l’anno a trovarci nonostante sia in pensione e libero come l’aria, ho dovuto chiederglielo.
Sorprendentemente, Sua Maestà il Papà della Ste aveva già messo in conto di venire a trovarci, quindi è partito dopo una feroce contrattazione sulla durata della visita – “Arrivo venerdì mattina e riparto domenica a pranzo” “Allora te ne puoi anche stare a casa.” “Vaaa bene, allora arrivo sabato mattina e riparto lunedì” “Mi prendi per il culo?! Non c’hai niente da fare, hai tre nipoti, vieni qua e ci stai UN BEL PO’!” “Uff. Arrivo sabato mattina e riparto martedì sera.”
Andata. Che poi magari gli potevo scroccare ancora un giorno, ma poi me ne sarei pentita perché ogni volta mi viene un esaurimento.
Però quest’ennesima visita brevissima non mi andava giù, soprattutto perché io ho un sacco di cose da sistemare in casa e che non posso fare perché ci vorrebbero due adulti a farle e uno a badare ai bambini. Quindi ho pensato di caricarlo in macchina appena arrivato, trascinarlo nel capoluogo della regione all’Ikea, comprare l’armadio per camera mia, che è rotto da circa 5-6 anni, e sistemare la faccenda dell’armadio una volta per tutte.
L’ho fatto davvero: “Ciao papà. Vuoi un caffè? Vuoi sederti? Sei stanco? No? Bene, allora molla giù tutto e vieni con me, si va all’Ikea.” “Cosa? Mh, boh. Adesso? Ok.”
Solo quando si è trovato a 40 km da casa mia, nel reparto armadi guardaroba, ha capito cosa stava succedendo. “Ma… oggi lo vuoi comprare?” “Certo.” “E chi lo monta?” “Che domande: io e te.” “Ma scusa… io vengo fino qui e tu mi fai montare armadi??” “Sono sei anni che ti dico che ho bisogno di aiuto, resti sempre 48 ore scarse… ora io ti faccio montare armadi. E smontare, pure, e portare alla discarica quello vecchio.”
E niente, puoi agitare i pugni, pestare i piedi, strillare “No vojo”, ma come diceva la Bisnonna, “Ora si fa quello che dico io!” (Jetzt g’schiet amol, wos i sog)
L’abbiamo caricato sul minivan della mia amica con quattro figli, che per avermelo prestato verrà proposta per la beatificazione in vita, e portarlo a casa è stato facile, così come spargere i dieci pacchi che lo componevano in ingresso.
Poi abbiamo cominciato a smontare quello vecchio, e mio padre si è addormentato sul divano. Si è risvegliato solo quando un pannello di diversi chili si è staccato di colpo cadendo a pochi centimetri dalla mia testa e schiantandosi a terra. A quel punto è tornato nel mondo dei vivi e ha portato l’armadio vecchio al piano terra.
Cominciamo a montare quello nuovo: “Guarda, papà, infila tre di queste viti ognuna nel terzo buco a partire dal basso, una per ogni fila di buchi.” “Ahm… uhm… ehm…” “Guarda, così.” E niente, l’ho fatto io. “Vabè, dai, ora infila questi pioli nei buchi laterali del listello. In quelli piccoli, mi raccomando.” “Listello…” “Papà, ma capisci quello che dico?” “E’ che io coi mobili Ikea… boh…” “Ho capito. Lasciamo stare, gioca coi pupi e con l’Uomo.”
E lui va a giocare col cellulare.
Dopo due ore io ho quasi finito i gusci degli armadi, l’Uomo è in camera coi bambini e ha i capelli dritti in testa (“Il Vietnam. Lì dentro è il Vietnam.”, dirà poi in un soffio, con lo sguardo perso nel vuoto) e mio padre ha visto un sacco di video buffi su internet.
Io sto finendo di inchiodare il retro quando mi schiaccio un dico col martello e offendo diverse divinità e donne di malaffare, ululando di dolore. A quel punto papà torna nuovamente nel mondo dei vivi per vedere cosa è successo: una bolla di sangue sottopelle. Dai, poteva andar peggio. Decide di aiutarmi stendendo. Quando scopro che appallottola la biancheria sullo stendino, voglio uscire sul balcone per “aiutarlo”, ma grazie al nuovo merdaviglioso pavimento che hanno fatto scivolo, mi grattugio un braccio sull’intonaco e mio padre mi afferra per un braccio prima che cada e rischi veramente di morire male. Ben, dai, ottimi riflessi.
La domenica dopo un pesantissimo pranzo fuori coi Suoceri, che finalmente sono ripartiti, continuo il montaggio, mentre mio padre decide che farà una passeggiatina. Tornerà due ore dopo, col buio, mentre io finisco di stringere le ultime viti dell’armadio nuovo e i miei figli e mio marito sono isterici, perché stanno da due ore chiusi in camera per evitare che qualcuno (non facciamo nomi) si tagli coi cartoni, rimanga schiacciato da un’anta o ingoi una vite. Sono fiera di me. Tanto, tanto fiera. Ammiro questo catafalco di 145 kg e spicci, impensabile che ieri fosse ancora imballato e a pezzi. Ho fatto un lavoro monumentale, l’ho fatto molto bene e penso anche velocemente. Se mio marito non distingue un cacciavite da una pinza e mio padre andando in pensione ha chiuso in cantina qualunque abilità manuale padroneggiasse, almeno io ci sono.
Insomma, mio padre torna col buio torna e porta via con l’Uomo i cartoni finalmente vuoti. Dove siamo io e i bambini nel frattempo? Non lo so, ormai ero in una nebbia di delirio e stanchezza. L’Uomo prepara la cena, ma si sbaglia e cucina per tre anziché per cinque, così io e mio padre mangiamo più tardi quello che ci capita. Tipo io un krapfen e un avanzo di pasta del giorno prima. Yeah.
Lunedì mattina lascio mio padre, che non parla tedesco né inglese e non conosce abbastanza le strade, a casa con Ranocchietta, che lo adora, mentre io torno dalla mia amica, mi faccio riprestare il minivan e ci carico il mobile vecchio. Mentre lo faccio, nella zona di carico/scarico c’è il tecnico del riscaldamento, e già che ci siamo arriva anche il camion della carta, quindi io sposto l’auto un paio di volte, e una di queste volte calcolo male i tempi e mi chiudo una portiera sulla gamba. Un male atroce, meno male che avevo i jeans, così mi hanno evitato squarci e me la sono cavata con un graffio e un enorme livido gonfio. Cavoli, che male. Fa ancora male, eh!
Insomma, carico un 100-150 kg di mobile sul minivan, mentre tutti gli uomini che passano mi guardano come se fossi una donna non particolarmente muscolosa che trasporta carichi esagerati, e vado alla discarica.
Apro il portellone e mi cadono addosso le ante. Panico. Cerco di tenerle, ma sono tutte insieme, mi scivolano ed è veramente troppo peso. In quel momento una rude voce maschile mi fa, in dialetto, “Spetta, che ti dò una mano e finisci prima.”, sbuca dietro di me un bell’uomo barbuto con dei guanti da lavoro e prende tutte e tre le ante. Insieme. “Attento, sono tre!” “Fa gnente.” “Io non riesco a tenerle, eh”, e allora lui con una frase distrugge tutto l’alpha womanismo degli ultimi tre giorni: “Ma io sono un uomo.” e cazzo, ha ragione. Glielo dico anche. “Hai ragione. E’ proprio una differenza. Grazie.” Perché va bene gli uomini che non sanno montare i mobili Ikea, va bene chi è così lento che preferisco che si levi dai piedi e lasci fare a me, ma adesso basta: c’è un barbuto muscoloso disposto ad aiutarmi? Che mi aiuti, finalmente! Non ne posso più di fare ‘sto lavoro del cavolo. Già mi spacco la schiena tutti i giorni con tre figli e una casa e i corsi e l’associazione culturale, per quanto sia divertente montare un mobile mi sono rotta le scatole. Per cosa hanno a che fare un corpo più robusto? Per portare i dannati mobili!
Sono stanca, devastata, piena di crampi, graffi, lividi, che lavoro del cazzo.
Non so quando mi sono sbucciata la nocca, so che a un certo punto bruciava, ed era già successo.
Ora però ho un bellissimo armadio intero e capiente in camera mia e la vita mi sorride. A parte l’enorme mucchio di vestiti da mettere nell’armadio. Quello non mi sorride, vabbè.